mercoledì 31 luglio 2013

questa volta non ho vinto il concorso e allora ecco a voi...IL SECONDO CAFFE'.



Il secondo caffè era quello più amato da Nenè. Aveva un aroma diverso, sapeva di cannella, di condivisione, di domani…e un po’ anche di oggi. Non era né dolce né amaro, era quello del Buongiorno con gli occhi già svegli.

Nenè attendeva i clienti dietro il bancone di legno di rovere, costruito dallo stesso artigiano delle barche a vela nel porto, coi riccioli sempre scompigliati e il sorriso fiero. Si sentiva l’odore del mare arrivare e il vento faceva ondeggiare le foto di ricordi appese all’albero di limoni all’ingresso. Si ascoltavano i treni passare, che erano solo dall’altra parte della strada, e chissà chi e dove portavano, ogni tanto lei se le immaginava le storie dei viandanti e dei viaggiatori che si fermavano per un caffè, e qualche volta osava…e gliela domandava, la loro storia.

L’alba era uno dei momenti che preferiva, parcheggiava la bici, prendeva la sua tazzina, un cucchiaino di zucchero di canna e si sedeva per qualche minuto ad osservare il profilo del mondo davanti a sé. Le luci dei pescherecci rientravano a casa e lei lo pensava. 
Era partito sette mesi prima in una sera come le altre, dopo un bacio che sapeva di ultimo caffè insieme.

Era stato con lei l’inventore di quel luogo, e in cucina preparava innumerevoli creazioni al sapore di quell’ingrediente di origine tropicale che gli arabi chiamano qawha. Tiramisù al cappuccino, baci di dama con crema di miscela liberica, spuma di excelsa con granella di pistacchi, gelato di caffè di Porto Rico con panna fresca e scaglie di cioccolato …il menù variava a seconda dell’estro dello chef, ma non mancavano mai dei biscotti a forma di stella che si narrava fossero fatti con della polvere di Kopi Luwak. Nenè ne metteva uno in ogni piattino assieme al caffè, puro, macchiato, o corretto che fosse, era il suo grazie e il suo modo di strappare un istante di meraviglia alle persone. Quando lui se ne era andato lei si era sentita così triste e sola che non aveva bevuto caffè per una settimana, ma non aveva smesso di prepararne per i suoi clienti. Era una cura anche quella: il profumo della macinatura che riempiva la sala e i passanti che entravano per il rito più italiano e più comune: il secondo caffè (o terzo, quarto, quinto…).

“Ti va un caffè?” è la frase di un primo appuntamento, di una riunione di lavoro, di una colazione tra amici, di una madre al figlio, di un pranzo della domenica, di due sconosciuti o di due innamorati…e Nenè esaudiva quel desiderio e quell’invito. Aveva incontrato mani, sguardi, bocche, uomini, donne… e per ognuno era stato un caffè diverso. L’acqua, l’aria, il momento, la circostanza, l’avevano reso tale e unico. Le piaceva questo gioco del caffè, corto, lungo, con latte freddo, caldo, con crema al gianduia, panna montata, bastoncino di zenzero candito: abbinamenti di gusti, stili e caratteri. C’erano sfide che vinceva e sfide che perdeva, di alcuni leggeva il fondo, di altri no. C’erano caffè doppi e caffè ristretti così come i cuori dei suoi ospiti (come amava definirli).  

Lui era rimasto stupito dalla passione di Nenè per il caffè quando l’aveva conosciuta, e si era innamorato di lei al loro secondo caffè, in una mattina di primavera. Da allora il secondo caffè lo bevevano sempre insieme, che fossero al Caffè, a casa, in un bar sulla spiaggia o in giro per il pianeta. La notte invece, quando chiudevano la saracinesca del locale, sorseggiavano una birra artigianale con le note del caffè di Anterivo (bevanda del Trentino che deriva da un lupino dalle foglie pelose) sull’altalena, coi piedi sulla sabbia, dondolando i pensieri e le parole davanti alle galassie. Se erano fortunati faceva loro l’occhiolino anche la scia di una stella cadente. Quel posto era un crocevia di gente, sogni, misteri, realtà strambe e avvenimenti buffi. Era il Caffè di Nenè.

Il lunedì era dedicato alla scuola di pasticceria, sulle assi di ciliegio sistemate sui cavalletti gli “apprendisti” si cimentavano nelle tecniche e nella produzione dei dolci, dando sfogo alla fantasia e all’allegria per impastare le mani e le ansie della vita in qualcosa di soffice, morbido, croccante o sbricioloso.

Ogni mese c’erano nuovi studenti che per quattro lezioni si scordavano di quello che esisteva al di fuori della classe ed erano conquistati dalla storia del caffè e dalla magia di farina, zucchero, latte, uova, frutta secca, cacao…mattarello, frusta, frullatore. La musica degli attrezzi e delle dita mischiava grammi di ingredienti a decilitri di pazienza e bontà.

Era giugno, il disco di fuoco nel cielo si addormentava con calma e irradiava l’ambiente fino a tardi mentre Nenè aspettava i suoi scolari con un vaso di ciliegie e i grembiuli da distribuire. Da quando lui non c’era più, lei aveva assunto anche il ruolo di insegnante. Teneva un diario con tutte le dosi e le ricette, le nuove invenzioni e i racconti degli aneddoti legati ad un secondo caffè dei partecipanti alla scuola.

Quella sera iniziò Viola a cimentarsi con una mousse e a narrare di sè. Era chiamata così perché aveva una voglia a forma di fiore (una viola) sulla caviglia poiché sua madre adorava le viole del pensiero.

Viola nella sua vita aveva fatto tutto all'incontrario. A partire da quando era nata. Tutti i neonati appena vengono al mondo piangono, lei no. Lei nel momento in cui la sua testolina sbucò fuori dal ventre materno rise. Rise così forte che tutti scoppiarono a ridere, contagiati. Chi la ascoltò, paragonò la sua risata a quella di sua madre. Rumorosa, piena, luminosa. E forse era vero.

Viola era piena di boccoli e con due occhi grandi e profondi che incantavano...e che non sapevano piangere. Quando era piccina suo padre per farla addormentare cantava e accompagnato dai tasti del pianoforte creava rime e poesie e Viola rideva. Per lei avrebbero dovuto inventare un dizionario della risata, perché lei sapeva ridere in un milione di sfaccettature differenti e in tutte le lingue possibili. Ridere è un atto e un linguaggio universale. Lei comunicava con tutti e così. Fino a quando...imparò anche a piangere. Accadde il giorno in cui suo padre se ne andò. Non è che andò lontano, ma non era più lì. Non è che uno deve andare molto lontano per essere lontano, semplicemente non è con te, o se c’è è come se fosse distante chilometri. Successe mentre Viola beveva il secondo caffè della sua giornata. Viola imparò a piangere così. Sentì dentro la solitudine e la malinconia, prese la moka, il barattolo di arabica nella credenza, la bevanda scura e calda venne in superficie borbottando...e le lacrime iniziarono a scorrere, prima piano e poi più veloci e i suoi occhi divennero ancora più belli, come le violette tra l'erba, al mattino, quando la rugiada le sfiora e il sole si risveglia. Da quel giorno ogni volta che Viola desiderava piangere si preparava un caffè…e imparò che piangere era meraviglioso quasi quanto ridere. Significava libertà. Alla lezione di pasticceria quella sera Viola creò una mousse con caffè marrone dell’Isola della Riunione, latte di pecora e anacardi caramellati. E rise.

Dopo di lei fu Carlo a descrivere il suo celebre secondo caffè. Era uno spirito errante, aveva percorso i continenti con la voglia di scoprire sempre qualcosa di nuovo di se stesso e di quello che lo circondava, ma non si era mai dimenticato da dove veniva e portava con sé la polaroid di sua sorella scattata allo stadio per una finale della loro squadra. Dovunque era stato aveva sempre cucinato il loro piatto favorito (se riusciva a recuperare gli ingredienti): risotto allo zafferano, o semplicemente giallo come lo definivano da piccoli.

Era stato in Africa, nelle piantagioni della Tanzania, a conoscere le popolazioni locali per le sue ricerche di antropologia e in un pomeriggio in cui a sud dell’equatore l’orologio sembra avere le lancette immobili, aveva incontrato un bambino di 7 anni che correva dietro ad un pallone. Si chiamava Simba, come il re leone, con la pelle color caffè e lo sguardo penetrante. Avevano giocato a calcio insieme senza parlare e poi Simba aveva preso per mano Carlo e l’aveva condotto nel suo villaggio, l’aveva fatto accomodare nella sua casa di rami e pietra e mentre il sole calava gli aveva offerto il secondo caffè, nero e puro, quasi acidulo e gli aveva sussurrato “rafiki”, “amico” in swahili. Quella sera di quasi estate da Nenè, Carlo infornò una torta squisita con cioccolato salato, crema al caffè dai chicchi rotondi e pistilli di zafferano a decorarla.

Fuori dalla stanza c’era odore di temporale, le persiane sbattevano, nuvoloni cupi si avvicinavano e Nenè decise di aprire la sua scatola del passato con uno dei suoi secondi caffè.

Pia se ne era andata sottovoce in un gennaio di neve anche sulla costa, quando i fiocchi ghiacciati si tuffano leggeri nell’acqua marina. Si era addormentata, per sempre, al suo secondo caffè, seduta al tavolo della colazione, accanto alla sua poltrona rossa e al quadro che aveva dipinto con un paesaggio invernale. La tazzina era rotolata, sporcando di caffè la sua mano. Se ne era andata lasciando non un vuoto incolmabile, ma uno spazio pieno di ricordi, sensazioni, sorrisi e profumo di caffè. Era la nonna di Nenè e possedeva la sua stessa pazzia buona, quella che fa perseguire le strade non ancora tracciate, quella che fa credere nei sogni possibili, perché di impossibili non ne esistono, quella che l’aveva convinta ad aprire quel Caffè, a seminare il gelsomino, a rispettare l’amore e ad essere fedele con se stessa. In eredità tra le latte di caffè e le cartine geografiche che collezionava di ogni luogo della terra dove si coltivasse caffè, aveva trovato una ricetta e una dedica. La nonna Pia beveva solo caffè di Giava, delicato e raffinato, come lei, amava i petali delle rose e i frutti delle fragole e come nei cruciverba incastrava questi elementi nel suo dolce preferito.

Quella sera Nenè si esibì in una frolla al caffè con spuma di fragola, scaglie di mandorle e liquore alle rose. I fulmini squarciavano la notte, ma Nenè non aveva paura, cucinava insieme ai suoi alunni e ai romanzi sul caffè che ognuno di loro si teneva stretto.

Quando la lezione terminò, restò sola a pulire e sistemare il frigo e le pentole, le bacinelle e i taglieri sparsi qua e là. La pioggia batteva a ritmo sui vetri, era quasi una melodia di tamburi e lei si mise a ballare, con le palpebre chiuse. L’aurora arrivò prima del previsto ed era tersa e frizzante. Il mare era piatto e calmo, i gabbiani volavano bassi sulla superficie, Nenè si incamminò sul molo e immerse il primo piede…poi nuotò fino alla boa. Sarebbe stata un’altra stagione, più difficile forse, ma non meno bella. Non era spaventata, era in attesa dgli scherzi del futuro e delle sorprese del destino.

Quando rientrò al Caffè, le sue guardie del corpo, come le piaceva nominare barista e cameriera, stavano già cuocendo croissant e piccoli muffin. Era il momento ideale per il primo caffè.

Un vagone merci sferragliò a pochi metri da lei, e il rombo di una moto si confuse con lo scampanellio della bicicletta del ragazzo che recapitava i quotidiani.

Quando lui entrò Nenè era di spalle, si tolse il casco che gli nascondeva i capelli, si avvicinò al bancone e appoggiò un bacio di dama accanto alla zuccheriera. Era un bacio con farina integrale e fondente aromatizzato al kona, caffè delle Hawaii. Il bacio che lei desiderava. Lei si voltò al suono della voce di lui che ordinò: il secondò caffè.

venerdì 26 luglio 2013

lugliocolbenechemivoglio.


...occorre trovare la rima giusta,
o il menestrello capace di inventarla,
e scopri che l'amore si veste di giallo (con bretelle e cravattino)
che fa tardi con l'open bar,
si sveglia presto per l'allestimento,
dimentica il topper della torta,
non ha sempre lo stesso sesso,
ha la potenza dell'eruzione di un vulcano,
il broncio di una neonata,
la voce di una mamma che non è la tua (ma la sua).
la seta torna ad essere verde, e il bianco lo lasci alle altre...
il brindisi no...quello, primo o ultimo che sia, è sempre di nenè.
fa caldo...al quarto piano...in costiera...in brianza...in val trebbia...
estate che passi, che corri, che hai binari paralleli...
che non ti svesti nè ti travesti, mentre la mente torna indietro, il cuore si ferma,
e i piedi continuano ad andare avanti...
la luna è calante...o crescente? 
piove sul concerto, e tirerà vento sul deltaplano...
una tromba detta il suo soul, un pianoforte le sue note jazz, una chitarra il suo rock.
la mia voce ride e canta anche se non la senti...
è un po' roca di malinconia, e squillante di libertà.
ci vorrebbe il silenzio dolce di certe notti per farla stare zitta.