Il secondo caffè
era quello più amato da Nenè. Aveva un aroma diverso, sapeva di cannella,
di condivisione, di domani…e un po’ anche di oggi. Non era né dolce né amaro,
era quello del Buongiorno con gli occhi già svegli.
Nenè attendeva i
clienti dietro il bancone di legno di rovere, costruito dallo stesso
artigiano delle barche a vela nel porto, coi riccioli sempre scompigliati e
il sorriso fiero. Si sentiva l’odore del mare arrivare e il vento faceva
ondeggiare le foto di ricordi appese all’albero di limoni all’ingresso. Si
ascoltavano i treni passare, che erano solo dall’altra parte della strada,
e chissà chi e dove portavano, ogni tanto lei se le immaginava le storie
dei viandanti e dei viaggiatori che si fermavano per un caffè, e qualche
volta osava…e gliela domandava, la loro storia.
L’alba era uno dei
momenti che preferiva, parcheggiava la bici, prendeva la sua tazzina, un
cucchiaino di zucchero di canna e si sedeva per qualche minuto ad osservare
il profilo del mondo davanti a sé. Le luci dei pescherecci rientravano a
casa e lei lo pensava.
Era partito sette mesi prima in una sera come le
altre, dopo un bacio che sapeva di ultimo caffè insieme.
Era stato con lei
l’inventore di quel luogo, e in cucina preparava innumerevoli creazioni al
sapore di quell’ingrediente di origine tropicale che gli arabi chiamano
qawha. Tiramisù al cappuccino, baci di dama con crema di miscela liberica,
spuma di excelsa con granella di pistacchi, gelato di caffè di Porto Rico
con panna fresca e scaglie di cioccolato …il menù variava a seconda
dell’estro dello chef, ma non mancavano mai dei biscotti a forma di stella
che si narrava fossero fatti con della polvere di Kopi Luwak. Nenè ne
metteva uno in ogni piattino assieme al caffè, puro, macchiato, o corretto
che fosse, era il suo grazie e il suo modo di strappare un istante di meraviglia
alle persone. Quando lui se ne era andato lei si era sentita così triste e
sola che non aveva bevuto caffè per una settimana, ma non aveva smesso di
prepararne per i suoi clienti. Era una cura anche quella: il profumo della
macinatura che riempiva la sala e i passanti che entravano per il rito più
italiano e più comune: il secondo caffè (o terzo, quarto, quinto…).
“Ti va un caffè?” è
la frase di un primo appuntamento, di una riunione di lavoro, di una
colazione tra amici, di una madre al figlio, di un pranzo della domenica, di
due sconosciuti o di due innamorati…e Nenè esaudiva quel desiderio e
quell’invito. Aveva incontrato mani, sguardi, bocche, uomini, donne… e per
ognuno era stato un caffè diverso. L’acqua, l’aria, il momento, la
circostanza, l’avevano reso tale e unico. Le piaceva questo gioco del
caffè, corto, lungo, con latte freddo, caldo, con crema al gianduia, panna
montata, bastoncino di zenzero candito: abbinamenti di gusti, stili e caratteri.
C’erano sfide che vinceva e sfide che perdeva, di alcuni leggeva il fondo,
di altri no. C’erano caffè doppi e caffè ristretti così come i cuori dei
suoi ospiti (come amava definirli).
Lui era rimasto
stupito dalla passione di Nenè per il caffè quando l’aveva conosciuta, e si
era innamorato di lei al loro secondo caffè, in una mattina di primavera.
Da allora il secondo caffè lo bevevano sempre insieme, che fossero al Caffè,
a casa, in un bar sulla spiaggia o in giro per il pianeta. La notte invece,
quando chiudevano la saracinesca del locale, sorseggiavano una birra artigianale
con le note del caffè di Anterivo (bevanda del Trentino che deriva da un
lupino dalle foglie pelose) sull’altalena, coi piedi sulla sabbia, dondolando
i pensieri e le parole davanti alle galassie. Se erano fortunati faceva
loro l’occhiolino anche la scia di una stella cadente. Quel posto era un
crocevia di gente, sogni, misteri, realtà strambe e avvenimenti buffi. Era
il Caffè di Nenè.
Il lunedì era
dedicato alla scuola di pasticceria, sulle assi di ciliegio sistemate sui
cavalletti gli “apprendisti” si cimentavano nelle tecniche e nella
produzione dei dolci, dando sfogo alla fantasia e all’allegria per
impastare le mani e le ansie della vita in qualcosa di soffice, morbido,
croccante o sbricioloso.
Ogni mese c’erano
nuovi studenti che per quattro lezioni si scordavano di quello che esisteva
al di fuori della classe ed erano conquistati dalla storia del caffè e
dalla magia di farina, zucchero, latte, uova, frutta secca,
cacao…mattarello, frusta, frullatore. La musica degli attrezzi e delle dita
mischiava grammi di ingredienti a decilitri di pazienza e bontà.
Era giugno, il
disco di fuoco nel cielo si addormentava con calma e irradiava l’ambiente
fino a tardi mentre Nenè aspettava i suoi scolari con un vaso di ciliegie e
i grembiuli da distribuire. Da quando lui non c’era più, lei aveva assunto
anche il ruolo di insegnante. Teneva un diario con tutte le dosi e le
ricette, le nuove invenzioni e i racconti degli aneddoti legati ad un
secondo caffè dei partecipanti alla scuola.
Quella
sera iniziò Viola a cimentarsi con una mousse e a narrare di sè. Era chiamata
così perché aveva una voglia a forma di fiore (una viola) sulla caviglia
poiché sua madre adorava le viole del pensiero.
Viola nella
sua vita aveva fatto tutto all'incontrario. A partire da quando era nata.
Tutti i neonati appena vengono al mondo piangono, lei no. Lei nel momento
in cui la sua testolina sbucò fuori dal ventre materno rise. Rise così
forte che tutti scoppiarono a ridere, contagiati. Chi la ascoltò, paragonò
la sua risata a quella di sua madre. Rumorosa, piena, luminosa. E forse era
vero.
Viola era
piena di boccoli e con due occhi grandi e profondi che incantavano...e che
non sapevano piangere. Quando era piccina suo padre per farla addormentare
cantava e accompagnato dai tasti del pianoforte creava rime e poesie e Viola rideva. Per lei avrebbero
dovuto inventare un dizionario della risata, perché lei sapeva ridere in un
milione di sfaccettature differenti e in tutte le lingue possibili. Ridere è
un atto e un linguaggio universale. Lei comunicava con tutti e così. Fino a
quando...imparò anche a piangere. Accadde il giorno in cui suo
padre se ne andò. Non è che andò lontano, ma non era più lì. Non è che
uno deve andare molto lontano per essere lontano, semplicemente non è con
te, o se c’è è come se fosse distante chilometri. Successe mentre Viola beveva il
secondo caffè della sua giornata. Viola
imparò a piangere così. Sentì dentro la solitudine e la malinconia, prese la
moka, il barattolo di arabica nella credenza, la bevanda scura e calda
venne in superficie borbottando...e le lacrime iniziarono a scorrere, prima
piano e poi più veloci e i suoi occhi divennero ancora più belli, come le
violette tra l'erba, al mattino, quando la rugiada le sfiora e il sole si risveglia.
Da quel giorno ogni volta che Viola
desiderava piangere si preparava un caffè…e imparò che piangere era
meraviglioso quasi quanto ridere. Significava libertà. Alla lezione di
pasticceria quella sera Viola creò una mousse con caffè marrone dell’Isola
della Riunione, latte di pecora e anacardi caramellati. E rise.
Dopo di lei fu Carlo a
descrivere il suo celebre secondo caffè. Era uno spirito errante, aveva
percorso i continenti con la voglia di scoprire sempre qualcosa di nuovo di
se stesso e di quello che lo circondava, ma non si era mai dimenticato da
dove veniva e portava con sé la polaroid di sua sorella scattata allo
stadio per una finale della loro squadra. Dovunque era stato aveva sempre
cucinato il loro piatto favorito (se riusciva a recuperare gli
ingredienti): risotto allo zafferano, o semplicemente giallo come lo
definivano da piccoli.
Era stato in Africa, nelle
piantagioni della Tanzania, a conoscere le popolazioni locali per le sue
ricerche di antropologia e in un pomeriggio in cui a sud dell’equatore
l’orologio sembra avere le lancette immobili, aveva incontrato un bambino
di 7 anni che correva dietro ad un pallone. Si chiamava Simba, come il re
leone, con la pelle color caffè e lo sguardo penetrante. Avevano giocato a
calcio insieme senza parlare e poi Simba aveva preso per mano Carlo e
l’aveva condotto nel suo villaggio, l’aveva fatto accomodare nella sua casa
di rami e pietra e mentre il sole calava gli aveva offerto il secondo
caffè, nero e puro, quasi acidulo e gli aveva sussurrato “rafiki”, “amico”
in swahili. Quella sera di quasi estate da Nenè, Carlo infornò una torta
squisita con cioccolato salato, crema al caffè dai chicchi rotondi e
pistilli di zafferano a decorarla.
Fuori dalla stanza c’era odore
di temporale, le persiane sbattevano, nuvoloni cupi si avvicinavano e Nenè
decise di aprire la sua scatola del passato con uno dei suoi secondi caffè.
Pia se ne era andata sottovoce
in un gennaio di neve anche sulla costa, quando i fiocchi ghiacciati si
tuffano leggeri nell’acqua marina. Si era addormentata, per sempre, al suo
secondo caffè, seduta al tavolo della colazione, accanto alla sua poltrona
rossa e al quadro che aveva dipinto con un paesaggio invernale. La tazzina
era rotolata, sporcando di caffè la sua mano. Se ne era andata lasciando
non un vuoto incolmabile, ma uno spazio pieno di ricordi, sensazioni,
sorrisi e profumo di caffè. Era la nonna di Nenè e possedeva la sua stessa
pazzia buona, quella che fa perseguire le strade non ancora tracciate,
quella che fa credere nei sogni possibili, perché di impossibili non ne
esistono, quella che l’aveva convinta ad aprire quel Caffè, a seminare il
gelsomino, a rispettare l’amore e ad essere fedele con se stessa. In
eredità tra le latte di caffè e le cartine geografiche che collezionava di
ogni luogo della terra dove si coltivasse caffè, aveva trovato una ricetta
e una dedica. La nonna Pia beveva solo caffè di Giava, delicato e
raffinato, come lei, amava i petali delle rose e i frutti delle fragole e
come nei cruciverba incastrava questi elementi nel suo dolce preferito.
Quella sera Nenè si esibì in una
frolla al caffè con spuma di fragola, scaglie di mandorle e liquore alle
rose. I fulmini squarciavano la notte, ma Nenè non aveva paura, cucinava
insieme ai suoi alunni e ai romanzi sul caffè che
ognuno di loro si teneva stretto.
Quando la lezione terminò, restò
sola a pulire e sistemare il frigo e le pentole, le bacinelle e i taglieri
sparsi qua e là. La pioggia batteva a ritmo sui vetri, era quasi una
melodia di tamburi e lei si mise a ballare, con le palpebre chiuse.
L’aurora arrivò prima del previsto ed era tersa e frizzante. Il mare era
piatto e calmo, i gabbiani volavano bassi sulla superficie, Nenè si
incamminò sul molo e immerse il primo piede…poi nuotò fino alla boa.
Sarebbe stata un’altra stagione, più difficile forse, ma non meno bella.
Non era spaventata, era in attesa dgli scherzi del futuro e delle sorprese
del destino.
Quando rientrò al Caffè, le sue
guardie del corpo, come le piaceva nominare barista e cameriera, stavano
già cuocendo croissant e piccoli muffin. Era il momento ideale per il primo
caffè.
Un vagone merci sferragliò a
pochi metri da lei, e il rombo di una moto si confuse con lo scampanellio
della bicicletta del ragazzo che recapitava i quotidiani.
Quando lui entrò Nenè era di
spalle, si tolse il casco che gli nascondeva i capelli, si avvicinò al
bancone e appoggiò un bacio di dama accanto alla zuccheriera. Era un bacio
con farina integrale e fondente aromatizzato al kona, caffè delle Hawaii.
Il bacio che lei desiderava. Lei si voltò al suono della voce di lui che
ordinò: il secondò caffè.
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